da IODONNA.IT di Marzia Nicolini - 05 marzo 2015
Donne alcoliste, sempre di più. Il gap che non volevamo colmare
Sono già il 20 per cento degli alcolisti. Ma la stima è in ribasso perché il fenomeno è sotterraneo. Iniziano in compagnia, tra aperitivi e feste. Continuano da sole, di nascosto, in casa. E sono sempre di più. Abbiamo ascoltato quelle che cercano di uscirne.
Sono bastati vent’anni per colmare un gap che separava uomini e donne, ma c’è poco da rallegrarsi: stiamo parlando dell’abuso di bevande alcoliche, approdato nell’universo femminile fino a sfiorare nelle statistiche ufficiali il 20 per cento degli alcolisti. Stima probabilmente al ribasso, visto che la dipendenza femminile è un fenomeno sotterraneo, spesso confinato nel privato, per paura di una riprovazione sociale ancora elevata. Intanto la percentuale di ricoveri di alcoliste è triplicata: il picco riguarda la fascia d’età tra i 35 e i 44anni (oltre al vertiginoso aumento in età adolescenziale). Nei gruppi di Alcolisti Anonimi, inoltre, il numero di donne risulta del 40 per cento.
Ma qual è in generale il profilo dell’alcolista? Da un’indagine interna condotta dall’associazione Alcolisti-Anonimi, su un campione di 765 membri risulta che non parliamo di emarginati sociali: il 72 per cento degli intervistati ha avuto una famiglia, l’82 percepisce un reddito e oltre la metà possiede un lavoro definito. Sono perciò persone “normalmente inserite” nel contesto sociale.
Numerose, però, le differenze uomo/donna: se per l’alcolista di sesso maschile la dipendenza si innesca spesso per ragioni sociali o di lavoro, nella donna dominano le motivazioni psicologiche. Depressione, stati d’ansia, abbandono da parte del partner e senso di solitudine sono l’impulso che spinge a bere. «Una donna, inoltre, impiega meno tempo per cadere nella dipendenza» spiega Rosanna Mancinelli del Centro nazionale sostanze chimiche dell’Istituto Superiore di Sanità. «Il corpo femminile è più vulnerabile all’alcol, a causa di una modalità di assorbimento gastrico diversa rispetto a quella maschile, e tende a sviluppare rapidamente le complicanze epatiche e psichiatriche correlate all’abuso». Ancora, la mortalità nella fascia d’età fra i 30 e i 34 anni è oltre 3 volte superiore rispetto all’uomo.
Le ragioni che spingono a cercare conforto nella bottiglia sono spesso comuni nelle donne: «Cercavo l’accettazione di una vita che non mi piaceva, di una me che non volevo» confida S., 35 anni. «Ho iniziato a bere a 19, mi sentivo brillante, meno introversa. L’opposto di quello che ero. Inizialmente bevevo solo quando uscivo, con gli amici» ricorda.
«Il fenomeno nuovo, oggi, riguarda le donne che copiano dagli uomini l’idea dell’uscire a bere - parecchio - tra feste e happy hour. In questo contesto, riempirsi d’alcol è quasi vincente» conferma la dottoressa Valeria Zavan, responsabile del Ser.T a Novi Ligure, in Piemonte. Poi però il divertimento diventa un problema. «A un certo punto ho sentito quasi una necessità fisica, ho cominciato a bere da sola e rigorosamente di nascosto» dice S.
Bere in segreto è uno dei primi campanelli di allarme, insieme al senso di isolamento e solitudine, all’aggressività, all’evitare amici e parenti» conferma Zavan. In più, legato al consumo alcolico crescente, il target femminile registra anche un aumento di patologie neuro-comportamentali, come depressione e disordini alimentari. Nella maggior parte dei casi la svolta avviene perché chi sta accanto a un alcolista inizia a dare segni di insofferenza, spingendolo a reagire. O quantomeno a chiedere aiuto, anche se - come in ogni dipendenza - la smania di onnipotenza è in agguato. «Per anni non mi sono rivolta a nessuno, come tutti quelli nella mia condizione ero convinta che ce l’avrei fatta da sola a smettere » racconta G. «A un certo punto, stremata, mi sono rivolta al medico di famiglia, piangendo gli ho chiesto di aiutarmi a capire se ero un’etilista. Mi ha prescritto delle analisi e visto che i valori erano tutti nella norma, mi ha tranquillizzata, e si è limitato alla prescrizione di paroxetina e a una pacca sulle spalle».
Da circa 20 anni l’Organizzazione Mondiale della Sanità porta avanti programmi perché i medici di base imparino a identificare i problemi legati all’alcol. Ma non è facile» sottolinea Zavan. «Molto dipende dalla sensibilità del medico, dalla capacità di cogliere i comportamenti anomali. Si sta lavorando per rendere queste figure - le prime cui ci si rivolge - sempre più preparate».
La sindrome da alcol può essere curata, ma richiede un approccio a 360°: fisico, medico, psicologico, quotidiano. Non esistono ricette valide per tutti. L’associazione Alcolisti Anonimi, per esempio, procede con un programma di recupero in 12 passi, da mettere in pratica «giorno per giorno, per restare sobri e soprattutto sentirsi supportati e mai giudicati», come conferma N., che lo sta seguendo. «Un alcolista resta tale a vita, come un cardiopatico. La cura del cardiopatico è l’assunzione giornaliera delle sue medicine, mentre quella dell’alcolista consiste nello stare lontano dal primo bicchiere della giornata, quello che innesca la compulsione a bere». Ma più importante del resto è accettarsi: questa è la parola chiave.